emanuela olivieri traversata stretto messina

Malattia di Parkinson, storia di Emanuela che attraversa a nuoto lo Stretto di Messina: «La mia vita non è finita»

Se desse retta al suo corpo, starebbe tutto il giorno sul divano a riposare. Lei invece ascolta il suo cuore, che le dice di non arrendersi al morbo di Parkinson. E così, per la quarta volta, Emanuela Olivieri ha attraversato a nuoto lo Stretto di Messina. Per dimostrare alle sue figlie che «la mamma ce la mette tutta»

di NINA VERDELLI per VANITY FAIR ITALIA – 17 LUGLIO 2024
Articolo sul morbo di Parkinson pubblicato sul numero 30-31 di Vanity Fair in edicola fino al 30 luglio 2024.

Alla domanda perché lo fa, la risposta è imprevista: «Perché quando nuoto mi dimentico di essere malata». E così, per la quarta volta in vita sua, Emanuela Olivieri da Roma è volata in Sicilia, Capo Peloro, per la precisione. Si è infilata muta, cuffia e occhialini. Ha aspettato il segnale di partenza. E poi via, bracciata dopo bracciata, è arrivata dall’altra parte, a Cannitello, in Calabria. Totale chilometri: quattro. Tempo di percorrenza: meno di un’ora. Avventura straordinaria per chiunque, ancora di più per lei che, otto anni fa, appena compiuti i 41, ha scoperto di avere il morbo di Parkinson.

«La prima volta che ho attraversato lo Stretto di Messina mi sentivo in gara contro la malattia. Volevo dimostrare a me stessa che la mia vita non era finita. E alle mie figlie che la mamma ce la mette tutta. Ho nuotato velocissima, in 54 minuti ho toccato riva. Ero talmente galvanizzata che ero pronta a ripartire subito. Mi sembrava di aver scritto una pagina della Storia. Mio marito era più euforico di me: al traguardo si è tuffato dalla barca che ci segue. Nel 2019 eravamo in cinque, quest’anno siamo più di 30 tra pazienti, famigliari e neurologi che, con noi, tentano l’impresa».

emanuela olivieri traversata stretto messina

L’impresa ha un nome, Swim for Parkinson, una società promotrice, la Fondazione Limpe per il Parkinson, il patrocinio della Federazione italiana nuoto e della Federazione italiana nuoto paralimpico. Due gli obiettivi: raccogliere fondi per le diverse realtà che, sul territorio, offrono assistenza ai pazienti e creare consapevolezza sulla seconda malattia neurodegenerativa più diffusa al mondo dopo l’Alzheimer (l’Istituto superiore di Sanità stima che colpisca l’1-2 per cento della popolazione sopra i 60 anni, il 3-5 per cento degli over 85; mentre il 5 per cento di tutti i pazienti presenta un esordio giovanile tra i 20 e i 40). «A me preme sottolineare l’importanza della pratica sportiva», spiega Emanuela. «Quando scopri di avere il Parkinson, ti dicono: “Fai fisioterapia”. Ma se sei giovane e ancora in forma, magari lo sport ti aiuta di più: a me fa sentire meno malata e mi regala una squadra dalla quale traggo tantissima energia». In squadra con lei c’è Giulia Di Lazzaro, neurologa al Policlinico Gemelli di Roma: «L’ho coinvolta sin dalle prime edizioni e ora è in prima linea. Lei era con me, nel 2016, quando ho ricevuto la diagnosi».

Da sinistra, le neurologhe Francesca Morgante e Mariachiara Sensi, con Emanuela Olivieri, sono tra le protagoniste, insieme a Cecilia Ferrari (la prima persona con il Parkinson a compiere l’impresa) della quarta edizione di Swim for Parkinson, l’iniziativa di Fondazione Limpe per il Parkinson mirata a raccogliere fondi per aiutare le varie realtà che offrono assistenza ai malati. Tutti possono contribuire su retedeldono.it.

Flashback di dieci anni: Emanuela è sposata con Riccardo, si conoscono dal 2000. Ex nuotatrice agonista ora contabile lei, geometra e surfista lui. Sono genitori di Alice e Viola, allora alle elementari. Vivono a Roma ma viaggiano tanto: hanno un camper con cui vanno ovunque. Quando restano a casa, riempiono il salotto di amici, risate e momenti che diventeranno ricordi felici. A un certo punto, intervengono alcune «minuzie» a sporcare il quadretto ma, all’inizio, nessuno ci dà peso: «Facevo fatica ad arrotolare gli spaghetti, a mettere il sale sull’insalata. Quando salivo le scale, capitava che perdessi una ciabatta. Quando scrivevo a mano, la mia grafia si faceva sempre più piccola e illeggibile». Un’amica infermiera le suggerisce una visita neurologica ma lei, dal consiglio all’appuntamento, fa passare un anno. Entrata in ospedale, invece, la diagnosi è fulminea: Parkinson. Altrettanto immediati lo stupore («Ma come, mica sono vecchia, mica tremo!») e la preoccupazione: «In un secondo ho immaginato il futuro: in sedia a rotelle, senza poter crescere le mie figlie, senza poter, un giorno, prendere in braccio i nipotini. Ero devastata: che madre sarei stata?».

Come prima cosa ha scelto di essere una madre trasparente: «Quel giorno ho fatto venire le bambine in ospedale e gliel’ho detto subito: “Da oggi, con noi, ci sarà anche questa malattia. Niente di grave, solo qualche rottura di scatole, ma mamma affronterà tutto”». Così le bambine sono tornate a casa un po’ più grandi, con un filo di spensieratezza in meno e un briciolo di responsabilità in più: «Avevano 8 e 11 anni. Sono cresciute aiutandomi, portandomi la pastiglia a letto quando fatico ad alzarmi, voltandosi indietro per controllare che non cada mentre cammino, accettando di buon grado la rinuncia a pomeriggi pieni di amichetti e weekend fuori porta perché “la mamma è stanca”. Manco si ricordano com’ero quando stavo bene. Questa cosa mi distrugge».

emanuela olivieri

La nostalgia del passato, a volte, è più forte della fede nel futuro. Nonostante i progressi della medicina. Secondo le ultime ricerche, infatti, gli scienziati avrebbero messo a punto un test del sangue che, con l’aiuto dell’Intelligenza artificiale, potrebbe diagnosticare la malattia di Parkinson sette anni prima della comparsa dei sintomi. Emanuela commenta: «Io non avrei mai voluto saperlo con così tanto anticipo. Ma che, siamo pazzi? Sette anni di serenità non li cambierei con nulla al mondo! Anche se riconosco l’importanza della diagnosi precoce, soprattutto per chi, come me, la riceve da giovane».

parkinson traversata stretto messina

Nel 2017 Emanuela ha fondato l’Associazione Parkinson Giovanile Roma, di cui è tutt’oggi presidente: «Ricevere una diagnosi a 30 o 40 anni è molto diverso che averla da anziani. I sintomi sono gli stessi: tremori, rigidità, difficoltà a camminare, parlare, deglutire, dormire. Quello che cambia è tutto il resto: a 40 anni sei nel pieno della vita famigliare, sessuale, lavorativa. Il Parkinson arriva come un ciclone e sconvolge ogni equilibrio».

A casa Olivieri, l’equilibrio sessuale ha retto: «Non so’ Moana», ironizza Emanuela, «ma per fortuna, da quel punto di vista, non ho subito grandi ripercussioni». Anche l’armonia famigliare ha tenuto: «Con la diagnosi in mano ho detto a mio marito: se vuoi andare, fallo ora. Sarà dura, ma preferisco affrontare questo percorso da sola che avere accanto una persona che sta con me per pietà». Riccardo è rimasto, la vita lavorativa invece è stata spazzata via: «Stavo troppo male, non dormivo. Poco dopo la diagnosi, mi sono licenziata: non ero più affidabile».

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Capita, infatti, che alcuni farmaci presentino effetti collaterali piuttosto pesanti: c’è chi sviluppa una dipendenza dal sesso, chi finisce vittima del gioco d’azzardo, chi, come Emanuela, da shopping compulsivo. «Mio marito era all’estero per lavoro e io, in due mesi, ho speso migliaia di euro. Mi svegliavo di notte, mi mettevo su Internet e cominciavo a comprare: porcellane che manco mi piacciono, mobili antichi che se li guardo oggi mi fanno schifo, scarpe, borse. Sapevo che non potevo andare avanti così, ma non riuscivo a trattenermi. Quando Riccardo è tornato ha capito subito che poteva essere un atteggiamento legato alla malattia. Il neurologo ha confermato. Cambiata la cura e tolta la carta di credito, il problema è rientrato. Ma non mi sono più sentita in grado di lavorare. Ora, io potevo permettermi di stare a casa, ma gli altri? Per questo con l’associazione mi prodigo per una maggiore consapevolezza: tanti di noi, me compresa, non ricevono alcun assegno di invalidità. Eppure la malattia è parecchio invalidante».

L’alternativa a questo affollato ricettario sarebbe sottoporsi a un intervento chirurgico per installare un pacemaker cerebrale: «Me l’hanno proposto», racconta Emanuela, «ma ho paura. Ho paura di svegliarmi e non sentirmi più padrona di me stessa, perché dipenderei totalmente dall’elettrostimolazione. Ecco, io non voglio dipendere da niente. L’ho spiegato a mio marito e alle mie figlie, anche se loro non vogliono sentirne parlare. Io, però, ci penso spesso: per me non c’è cosa più importante della dignità. Un domani, quando non sarò più autosufficiente, vorrei poter scegliere il mio destino. Vorrei essere aiutata ad andarmene in pace».